Graffiti

The untold stories

Bart e le origini del graffito in italia

a cura di Pietro Rivasi

Negli ambiti contro-culturali ciò che succede, ciò che si vede, è frutto di network informali che collegano persone e realtà diverse, luoghi distanti. Così è successo a Bart, per anni pendolare dei graffiti, tanto da essere accolto nella crew per molti anni più attiva di Modena.

Quando hai iniziato e perchè, cosa ti ha spinto verso il writing: qualcosa che hai visto in tv, per strada, in edicola, a un concerto…? Dove abitavi, c’erano già segni sui muri?

Vengo da un piccolo comune nell’hinterland Mantovano, dove la cosa più moderna che puoi vedere è l’ultimo modello di John Deere uscito. Mantova è una piccola città, collocata nello spigolo più a sud della Lombardia ed a livello di cultura urbana, soprattutto riguardante i graffiti ,era ed è molto povera. Non per vantarmene, ma prima di me non c’era una scena di writing, solo sporadiche apparizioni durate brevissimi periodi, delle meteore. Il mio primo approccio visivo ai graffiti risale circa all’estate del 1995. Due sono stati gli episodi chiave: il primo fu la visione, sulla rivista “Tutto” (un mensile sulla musica che usciva all’epoca che qualche amico comprava), dove pubblicarono uno speciale sui graffiti milanesi.  Nelle due pagine sui TDK primeggiava un puppet di Rendo (in realtà di Asso: del pezzo in questione trovate foto e informazioni qui n.d.r.) che mi folgorò. L’altro evento ancora più impattante fu la visione dal vivo di un pezzo su muro, un lettering in una via periferica di Mantova, WILD STYLE copiato pari pari dalla cover del film omonimo, rimasi quasi esterefatto. Scoprii qualche anno dopo che era stato fatto nell’86, da quello che diventò poi un amico oltre che il mio tatuatore. Rimase li fino ad un paio di anni fa, quando è stato riverniciato il muro. Da li iniziai a fare bozzetti e cercare di documentarmi il più possibile, scoprii che nel paese di fianco al mio alcuni ragazzi che rappavano facevano anche qualche pezzo sui muri della zona, ma ovviamente, essendo io molto più giovane di loro, venni snobbato alla grande.Nonostante quello, dopo mesi spesi a copiare il puppet dei TDK, passai a realizzarlo in modo terribile su un muro.Il 1996 fu l’anno in cui iniziai le scuole superiori e per spostarmi verso la città, utilizzavo il treno. IL TRENO, nel 1996, per un quattordicenne alla ricerca di documentazione sui graffiti, era la cosa più esaltante possibile: tra tutte le sfighe Mantova ha la fortuna di essere in un punto strategico a livello ferroviario. Io mi spostavo da casa sulla Milano-Cremona-Mantova. Arrivavo in stazione e sui binari ti trovavi i convogli che arrivavano da Verona o Padova, la roba dalla Bologna-Modena, le private da Ferrara, il regionale da Venezia.

Di conseguenza essendo tutto completamente non pellicolato, le carrellate di pezzi che arrivavano erano assurde: da Milano Mind, Spice, Dumbo, Rok, Riso, Neuro, Daze (un sacco di whole car dei VMD), Kilo, Near, Boat, Dra, Magma… dal veneto i TSM di Shen, CSI, Kato, Zuek, Naso, Cento, Resoan, F2D… dall’Emilia Longe, Lego, Chob, Erik. Ogni mattina era un giro di banchine, anche a costo di ritardare a scuola.

Quando hai iniziato e perchè, cosa ti ha spinto verso il writing: qualcosa che hai visto in tv, per strada, in edicola, a un concerto…? Dove abitavi, c’erano già segni sui muri?

Vengo da un piccolo comune nell’hinterland Mantovano, dove la cosa più moderna che puoi vedere è l’ultimo modello di John Deere uscito. Mantova è una piccola città, collocata nello spigolo più a sud della Lombardia ed a livello di cultura urbana, soprattutto riguardante i graffiti ,era ed è molto povera. Non per vantarmene, ma prima di me non c’era una scena di writing, solo sporadiche apparizioni durate brevissimi periodi, delle meteore. Il mio primo approccio visivo ai graffiti risale circa all’estate del 1995. Due sono stati gli episodi chiave: il primo fu la visione, sulla rivista “Tutto” (un mensile sulla musica che usciva all’epoca che qualche amico comprava), dove pubblicarono uno speciale sui graffiti milanesi.  Nelle due pagine sui TDK primeggiava un puppet di Rendo (in realtà di Asso: del pezzo in questione trovate foto e informazioni qui n.d.r.) che mi folgorò. L’altro evento ancora più impattante fu la visione dal vivo di un pezzo su muro, un lettering in una via periferica di Mantova, WILD STYLE copiato pari pari dalla cover del film omonimo, rimasi quasi esterefatto. Scoprii qualche anno dopo che era stato fatto nell’86, da quello che diventò poi un amico oltre che il mio tatuatore. Rimase li fino ad un paio di anni fa, quando è stato riverniciato il muro. Da li iniziai a fare bozzetti e cercare di documentarmi il più possibile, scoprii che nel paese di fianco al mio alcuni ragazzi che rappavano facevano anche qualche pezzo sui muri della zona, ma ovviamente, essendo io molto più giovane di loro, venni snobbato alla grande. Nonostante quello, dopo mesi spesi a copiare il puppet dei TDK, passai a realizzarlo in modo terribile su un muro. IL TRENO, nel 1996, per un quattordicenne alla ricerca di documentazione sui graffiti, era la cosa più esaltante possibile: tra tutte le sfighe Mantova ha la fortuna di essere in un punto strategico a livello ferroviario. Io mi spostavo da casa sulla Milano-Cremona-Mantova. Arrivavo in stazione e sui binari ti trovavi i convogli che arrivavano da Verona o Padova, la roba dalla Bologna-Modena, le private da Ferrara, il regionale da Venezia. Di conseguenza essendo tutto completamente non pellicolato, le carrellate di pezzi che arrivavano erano assurde: da Milano Mind, Spice, Dumbo, Rok, Riso, Neuro, Daze (un sacco di whole car dei VMD), Kilo, Near, Boat, Dra, Magma… dal veneto i TSM di Shen, CSI, Kato, Zuek, Naso, Cento, Resoan, F2D… dall’Emilia Longe, Lego, Chob, Erik. Ogni mattina era un giro di banchine, anche a costo di ritardare a scuola. Nello stesso periodo, l’edicola di fiducia vicino a scuola iniziò a tenere AELLE e non sto neanche a spiegarvelo.

In che modo la tua attività di writer è legata all’Emilia Romagna?

Il mio legame con l’Emilia Romagna lo considero fondamentale per la mia evoluzione. Tra il 1999 e il 2000 furono i primi anni dell’arrivo sul web dei graffiti. Stradanove è stato per me, e penso per una bella fetta di writer, un punto fondamentale, una pagina sulla quale venivano pubblicati pezzi sia su muro che su treno, legali e non direi di tutta la scena dell’epoca. La pagina era gestita da Pietro Rivasi che a primavera del 2000 organizzò anche una jam con una murata alla quale partecipai assieme a una cinquantina dei writer più attivi dell’epoca. In quell’occasione ho conosciuto Swing, un writer locale col quale si instaurò un rapporto di amicizia che ci portò a iniziare a trascorrere parecchie serate dai nonni a bere birre che davano l’invisibilità, a fare tag, lungolinea e pannelli, fino ad entrare a far parte delle stesse crew 059-ML’S. Modena fu anche testimone della sua festa di laurea, la più folle della storia, un week end alcolico con gente proveniente da lombardia, veneto, romagna e toscana. A dir poco memorabile! Oltre a quello Modena in quegli anni fu epicentro di eventi che in Italia non si erano ancora visti come ICONE che ha visto la partecipazioni di star dei graffiti e non a livello mondiale, e di una serie di eventi collaterali, una infinità di murate alla quale partecipavano sempre persone da tutta Italia. Una delle serate più assurde della mia vita è legata all’Emilia, al capoluogo in particolare. Infatti la sera della finale mondiale ITALIA – FRANCIA eravamo a Bologna io, Swing ed alcuni dei ragazzi più attivi nella zona. La finale a cui tutti tenevamo molto… l’abbiamo passata in due yard. Ricordo il silenzio che aleggiava nell’aria all’ingresso della prima yard, tutti i televisori sintonizzati sulla partita si udivano per strada come in Fantozzi… e noi sintonizzati su un pannello.La seconda tappa in yard è stata assurda, nel silenzio tipico da deposito a un certo punto tutti i treni in stazione e di passaggio hanno iniziato a suonare, ed abbiamo così capito come era finita la partita! Ritornammo verso casa in un fiume di auto coi claxon a tuono e le bandiere esposte a festeggiare con loro.

Qualche anno dopo decidemmo di fare un paio di giorni al mare in romagna dai nostri soci HF’S, due giorni dove il mare lo abbiamo visto mezz’ora… ma passammo più tempo nelle yard a fare whole car.Non posso non citare Modena anche per una cosa extra graffiti. 14 giugno del 2008, stadio Braglia, Rage Against The Machine, il concerto di uno dei miei gruppi preferiti. Un concerto memorabile a dir poco, al quale ho assistito in compagnia di Goner e nel dopo concerto anche di Swing… ovviamente finito in yard con un bell’end to end! Nel 2011 Modena fu anche ospite presso la galleria Avia Pervia della mostra personale per i 10 anni della crew, 10×365, un piccolo evento fatto di foto sulla nostra produzione decennale.

Come è maturato il tuo rapporto con questa cultura negli anni? Continui ad interessarti ed hai una opinione sulla evoluzione che ha avuto la scena del writing così come la sulla corrente muralistica?

Circa dal 2000 ho iniziato in modo costante e crescente a fare pannelli, che sono stati per anni il mio obiettivo preferito. Da quel momento in poi ho fatto sporadicamente qualche murata e qualche bombing, ma il grosso della mia produzione è stata su treno.

La mia attitudine mi ha portato li, col senno di poi rimpiango solo di non aver fatto qualche bombing e lungolinea in più. Nonostante da qualche anno abbia appeso gli spray al chiodo non ho mai smesso di seguire la scena e l’evoluzione dei graffiti. Quello che è difficile fare capire alle nuove generazioni è il rispetto per chi c’è stato prima, non tanto per una questione di anzianità e di gerarchie, ma perché la nostra generazione ha avuto un approccio molto più umile e ha fatto più fatica rispetto ad ora.

Non c’era internet, la nostra internet per molto tempo è stata la banchina, dovevi dimostrare quello che valevi coi fatti, studiavi il pezzo e cercavi sempre di fare qualcosa di stiloso ed originale, fatto bene, senza scazzare con nessuno o mettere i piedi nelle yard dove non dovevi. Nei graffiti, si sa, ci sono e ci saranno sempre tendenze stilistiche. Al giorno d’oggi è tutto standardizzato, tutti fanno lo stesso stile, se cosi si può chiamare, non c’è studio e non c’è originalità e la scena italiana negli ultimi 7-8 anni è stilisticamente crollata. Sembra che la cosa che preme di più sia farsi la pagina instagram dove mostrare i pannelli per un lasso di tempo ridicolo. Ogni tot di tempo appare Tizio che sembra essere il bomber più hardcore mai esistito e dopo sei mesi svanisce nel nulla, riuscendo in un tempo cosi ridotto ad avere scazzi con mezza Italia pur di apparire. Originalità e stile non passano mai di moda, mi fa un po’ tristezza (e da un lato piacere) vedere che le uniche cose stilose che si vedono girare tra le banchine, a parte pochissimissime eccezioni, sono tutte dei “NONNI” della scena che non mollano un colpo. Dall’altro lato i graffiti imperversano a 360°, finalmente hanno iniziato a riqualificare quartieri degradati di tutte le città (anche di Mantova, cosa da non credere!). Io rimango molto legato alla parte più hardcore dei graffiti, ma non posso non provare piacere nel vederli presenti ed accettati nella cultura odierna.

La storia della leggendaria crew di graffitari di Milano NMB

C’è stato un tempo – i primi anni Duemila – in cui Milano è stata la capitale italiana dei graffiti. Lo so perché li ho vissuti quegli anni, anche se da spettatore: ogni mattina prendevo la metro per andare al liceo o all’università e ogni mattina mi trovavo davanti qualche pannello nuovo. Rimanevo estasiato. Giravo per la città e identificavo i posti in base alle tag e ai bombing che vedevo sui muri. I nomi erano sempre quelli: Avido e Erpes, Rancy e Reno, Orbita, Drom e Stebo. In breve, i membri di quella crew NMB – acronimo di “No Muri Bianchi”, “No More Buff” – che ha dominato la scena dei graffiti a Milano negli ultimi anni prima che si dividesse in sottogruppi e che quella stessa scena sparisse. Nel 2010, stando alle dichiarazioni della polizia municipale, a Milano i graffiti erano “sicuramente il reato più perpetrato in città.” Praticamente tutti facevano i graffiti: sempre secondo la polizia “quasi la metà dei ragazzi tra i 12 e i 20 anni” e “il 40 percento circa dei ragazzini sotto i 14 anni.” Nel 2012, l’Associazione Nazionale Antigraffiti denunciava una crescita del fenomeno del 15-20 percento sull’anno precedente, e una “netta deriva vandalica” caratterizzata da “incisione di vetri e superfici, scatto di infissi, scritte più grandi fatte a rullo, sostanze sempre più indelebili (…) come l’acido cloridrico e il catrame e azioni sempre più eclatanti e rischiose”.

E in prima fila in tutto questo c’erano gli NMB. Oggi i membri della crew hanno smesso coi graffiti, tutte le metro che hanno dipinto sono state ripulite e la maggior parte delle loro opere non ci sono più: è una caratteristica dei graffiti, ancora sospesi a metà tra l’arte e la sottocultura, quella di avere vita breve allo stato brado. Ma a distanza di un decennio sui muri di Milano la loro tag si legge ancora, a testimonianza di quel periodo glorioso.

“Detto francamente, il mio nome l’ho deciso aprendo a caso un dizionario, guardando un po’ di parole e giocando con lettere e sillabe. Ed è venuto fuori Rancy. Avido prima taggava con un altro nome, poi noi gli abbiamo trovato quella tag. In generale i nomi nascevano come nascono i soprannomi nelle compagne di amici”.(Rancy) Alle origini della crew NMB ci sono una compagnia di amici, un liceo artistico milanese e un periodo storico in cui i graffiti erano ancora una sottocultura ma stavano per esplodere e diventare un fenomeno di massa. “Ci siamo conosciuti al liceo. Andavamo a scuola e poi tutto il resto del tempo lo dedicavamo ai graffiti. All’inizio facevamo i muri e roba abbastanza tranquilla, poi sono subentrati i treni, poi la metro e abbiamo cominciato a dedicarci tutto il giorno,” mi ha raccontato Rancy. “Molte volte andavo a scuola, finivo, tornavo a casa a mollare lo zaino, prendevo gli spray e uscivo a fare i graffiti. Tornavo a casa alle sei di mattina e alle otto e mezza ero di nuovo a scuola. Molto spesso entravo un’ora dopo e quell’ora la passavo sulla banchina della metropolitana a fotografare il treno che avevo dipinto la notte prima. A turno sorteggiavamo chi doveva saltare scuola per farlo”.

“Io ho iniziato a fare i graffiti al liceo, quando ho conosciuto gli altri: mi ci sono avvicinato perché ero appassionato di cultura hip-hop. Uscivamo da scuola, mangiavamo, poi non avevamo niente da fare e allora ci vedevamo e facevamo i primi graffiti”, mi ha detto Orbita. “Io ho iniziato prima degli altri, perché sono più grande. La mia scuola media era piena di writer e a 11 anni ho cominciato anch’io: prima nei bagni della scuola, poi sul bus che mi portava a scuola, poi nella zona tra casa e scuola”, mi ha detto Reno. “Mi piaceva molto, mi dava adrenalina. E ho continuato: il passo successivo è stato conoscere le persone giuste, entrare nella crew giusta e andare nei posti giusti”. “Quando intorno al 2007 il rap è diventato un po’ più commerciale anche i graffiti sono diventati un po’ più commerciali. Prima di quegli anni lì era diverso, e secondo me noi abbiamo vissuto quell’evoluzione: a un certo punto quella dei graffiti è esplosa come una moda”, mi ha spiegato Orbita.

Prima era più una questione di scena, anche se non c’era un vero luogo di aggregazione di writer a Milano com’era il Muretto per il rap negli anni Novanta. “Quando ho iniziato io, nel 2004, un posto c’era: le Colonne di San Lorenzo e piazza Vetra. Lì ho conosciuto decine di persone che mi hanno insegnato un po’ di cose”, mi ha spiegato Rancy. “Poi quella situazione è un po’ venuta a mancare e da quel momento quel poco di aggregazione che è rimasta è stata legata soprattutto ai luoghi dove comprare gli spray. Ma non c’era più un posto solo, c’erano le zone: noi ci trovavamo sempre in Bande Nere, avevamo il nostro muro e facevamo piazza, parlavamo, ci facevamo vedere a vicenda quello che avevamo fatto la notte prima…”.

Per il resto, la scena dei graffiti era molto eterogenea. Secondo Rancy era “difficile da decifrare, perché hai un insieme di persone totalmente diverse l’una dall’altra e che in comune hanno solamente l’essere dei ‘disadattati’ a cui piace fare i graffiti. C’è chi è figlio di un avvocato, chi sta nelle case popolari, chi ci arriva tramite il fatto che studia storia dell’arte e chi spaccia”. “Uno che fa i graffiti può essere di buona famiglia oppure un morto di fame, può essere uno che va a ballare in camicia o che si fuma le canne al parco. Se si sente dentro questa cosa i graffiti li fa. Io ho degli amici che sono dei figli di papà, gente ricca, che magari ha la barca a Montecarlo, e che andavano a fare la metro con me,” mi ha detto Reno”.

“Era un’escalation”

“Io mi considero un po’ malato, sono ossessionato. Ancora oggi quando vado in giro mi guardo intorno per vedere i posti e le scritte – lì c’è quella di un mio amico, di là quella di uno che mi sta sul cazzo. Non riesco a starmene tranquillo, a guardare il cellulare, guardo sempre i muri in cerca di scritte”.(Reno) Nel loro periodo di gloria gli NMB erano ovunque: su tutti i muri, su tutte le metro. Ho chiesto loro come vivessero questo aspetto, se l’essere onnipresenti fosse un modo di compensare una qualche ansia, se a spingerli fosse la competizione o qualcosa di più personale. Dalle risposte, probabilmente è stato un po’ un mix delle due cose. “Spesso capitava che facessimo una murata tutti insieme e che dopo averla fatta non ci sentissimo soddisfatti, che ci rimanesse la voglia. E allora prendevamo e andavamo fare bombings. Oppure uno di noi faceva un bombing che ci piaceva e allora partiva una sorta di competizione interna molto stimolante”, mi ha detto Rancy. “Io ho sempre preferito vivere l’esperienza del graffito piuttosto che documentarlo: tante mie cose sono scomparse senza che ne abbia una foto. Personalmente lo facevo al 90 percento per la fotta, per l’esperienza e adrenalina nel fare il graffito e stare con gli amici, e 10 percento per la foto”.

Alcuni – in primis – erano più concentrati sulla strada. Altri, come Rancy, non potevano vivere senza le metro: “La metro l’inizio del graffito, il graffito è nato sulla metro. Per questo se avevo tre nottate libere preferivo spenderle tutte per la metro, e magari riuscire a farne solo una, che non passare tre notti in giro a fare tag e bombing per strada”.

“Quando inizi a fare tanti muri e poi fai qualche treno, finisce che ti viene voglia di fare sempre più treni. Poi fai tanti treni e vedi chi fa la metro, sai che è più difficile e allora ti metti in testa di fare la metro”, mi ha detto Rancy. “È un’escalation. Io ho cominciato prima degli altri e con il tempo li ho portati tutti nella mia stessa escalation. Eravamo arrivati che oggi mezzo pubblico a Milano aveva un nostro pezzo, una nostra incisione o una nostra tag”.

“Non sentivamo di avere una missione, non c’era spirito di ribellione… o meglio: c’era, un writer lo mantiene comunque, ma col tempo viene sopraffatto da tante altre cose come lo stile, la capacità di fare qualcosa che magari altri non fanno perché non ne hanno il coraggio. E allora la competizione diventa più una competizione con gli altri writer per far vedere che spacchi più di loro, che una competizione con la società. Ad oggi invece come urban artist cerco di collaborare e spingere la società a rendere il contesto urbano meno grigio e più culturale”, mi ha spiegato Rancy. A questa competizione si aggiunge anche un altro elemento: riuscire a fare una cosa illegale senza farti beccare dalla polizia o dai vigilantes. Ma, mi spiega ancora Rancy, “non è che fosse qualcosa di focalizzato contro di loro: loro erano semplicemente un ostacolo che dovevamo superare”. E ovviamente la competizione era anche interna alla scena – una classico della cultura hip-hop da cui i graffiti discendono. “È un po’ come nel rap, ci si lancia frecciatine a vicenda, sono scazzi fisiologici per far vedere chi è più forte. C’erano persone che avevano problemi anche pesanti secondo queste logiche, ma che magari se si fossero conosciute di persona sarebbero diventate amiche,” mi ha detto Orbita.

“Forse una volta c’era più rispetto e oggi ce n’è meno. Una volta ci si combatteva sulle linee della metro, adesso ci si cancella i pezzi a vicenda. E che senso ha far girare i pannelli così? Non ha senso, a te gira sporco e a me gira sporco e facciamo tutti e due la figura degli scemi. La scena la domini facendo più cose degli altri e cose più belle degli altri,” mi ha detto Reno. “Non è che ci sentissimo paladini di qualcosa: noi semplicemente volevamo spingere il nostro nome per far vedere agli altri che avevamo le palle di fare le cose. Perché ti assicuro che tantissima gente vorrebbe il suo nome sulla metro, ma sono in pochi ad avere le palle, la passione e anche la cultura sotto certi versi di prendersi lo sbatti di farlo”, mi ha detto Rancy.

“Fare il semaforo”

Agli NMB la voglia di sbattersi non è mai mancata. Per loro i graffiti non erano qualcosa che si fa per farsi vedere, per status, ma una vera e propria chiamata. Il tempo che ci dedicavano era molte volte superiore al risultato. Capitava spesso che stessero appostati ore e ore, anche tutta la notte, a controllare un deposito segnandosi gli orari dei turni di chi ci lavorava e prendendo nota delle finestre temporali in cui avrebbe potuto agire. A studiare “una mossa” come si dice in gergo. “Mossa vuol dire un certo posto e una certa ora dov’è facile fare un graffito, ad esempio una stazione in cui il treno rimane fermo e incustodito per 5 o 10 minuti. Per scoprirla in genere ti devi appostare, devi stare lì a guardare. O magari passi per caso, vedi il treno fermo e poi ritorni a controllare quanto sta fermo e perché”, mi ha spiegato Reno.

“Il tempo passato a preparare il terreno dipendeva dalle situazioni, non sai mai cosa può succedere”, mi ha detto Rancy. “Spesso ci dedicavi ore e ore fermo fuori a guardare, prima di entrare. E poi dipendeva anche come erano parcheggiate le metro nel deposito: se erano messe in un certo modo che ti copriva dalla telecamera potevi farle, se erano fuori potevi farle in 5 minuti massimo perché comunque le avrebbero portate via, erano lì solo momentaneamente… Non era mai tutto uguale. Sono andato in metro migliaia di volte e non ho mai trovato due situazioni simili. Ogni volta era una sfida, un rompicapo che dovevi risolvere al meglio per correre il minimo rischio”. Studiare le mosse e fare sopralluoghi diventava praticamente un lavoro. “O sei motivato, ti fai gli sbattimenti, controlli le grate, scopri posti oppure fai come facevo io e ti fidi di chi si fa gli sbatti e ti fai portare da loro. Certe volte i writer conoscono i posti meglio della gente che ci lavora, perché magari ci passano tutto il giorno o tutta la notte senza nemmeno scrivere”, mi ha detto Orbita. Uno così era Erpes, un membro della NMB che per un buon periodo di due o tre anni è stato il writer più presente in assoluto sulla metropolitana di Milano. “Erpes è arrivato a un punto che nello stesso momento gli giravano 30 graffiti sulle tre linee della metro. Per girarti 30 graffiti vuol dire che in due settimane devi aver fatto 30 pannelli: due al giorno. Vuol dire che veramente ci stai 24 ore su 24. E infatti Erpes quasi ci viveva nel deposito della metro: stava lì dentro talmente tanto tempo che aveva persino il suo posto dove andare a fare la cacca”, mi ha raccontato Rancy. C’è un modo di dire tra i writer, mi raccontano, che è “fare il semaforo”: vuol dire riuscire a fare graffiti sulle tre linee della metropolitana di Milano – la rossa, la gialla e la verde – in 24 ore. Come si può intuire non è assolutamente una cosa facile, tanto che anche uno come Rancy ci è riuscito una sola volta. Erpes, mi raccontano, ci riusciva talmente tanto spesso che quando non ce la faceva si incazzava.

Tutta questa presenza aveva anche dei lati negativi: uno su tutti il costante rischio di essere beccati. Anche se negli anni d’oro della NMB il Comune di Milano non aveva ancora lanciato la linea durissima contro i graffiti di oggi, i rischi non erano comunque pochi. “Una volta, a San Donato, ci hanno beccati e ci hanno chiamati con l’altoparlante. Allora siamo scappati, mentre scavalcavamo per andare via abbiamo visto che usciva uno dei vigilantes con la pistola in pugno. Prima di entrare avevamo incontrato uno zingaro che ci aveva avvisati, ‘guardate che c’è un tipo matto con una pistola’, ma non ci eravamo fidati. Fatto sta che ci siamo messi a correre e questo ci inseguiva gridando con la pistola. Per fortuna siamo riusciti a scappare. Quando sono tornato a casa, appena sono entrato, ho vomitato nei vasi delle piante per la tensione”, mi ha raccontato Orbita.

“Un’altra volta, mentre dipingevamo un treno, degli zingari hanno cercato di rapinarci. Si sono avvicinati a noi da dietro con delle spranghe di ferro, ma un certo punto devono aver fatto rumore perché noi ci siamo girati tutti nello stesso momento. C’è stata una pausa di uno o due secondi in cui ci siamo guardati e siamo rimasti immobili, poi loro hanno corso verso di noi e siamo scappati. Per fuggire mi sono buttato sotto un treno fermo e ho battuto la testa così forte che non so come ho fatto a non svenire”, mi ha detto Orbita.

Artisti e vandali

Secondo Rancy, alla lunga rispetto all’adrenalina comincia a contare di più la voglia di esprimersi che sta alla base della cultura dei graffiti – questo ibrido tra una sottocultura giovanile e una forma d’arte popolare, che ormai ha 50-60 anni di storia. I graffiti sono influenzati dalla società ma anche la società ormai è influenzata dai graffiti. Non a caso dove vengono fatti i graffiti poi arriva la pubblicità a coprire i pezzi e i bombing e sfruttare la visibilità dei posti. “Una volta i tram erano tutti arancioni. Ora ci sono le pubblicità su tutto il tram, persino sui vetri, come facevano i graffiti. O anche le metro: una volta erano tutte pulite, poi sono arrivati i graffiti e adesso molte sono coperte di pubblicità. Quindi non era tanto il graffito che dava fastidio, era il fatto che si prendesse gratis uno spazio molto visibile.” Nonostante ciò, però, è impossibile eludere la distinzione in due categorie contrapposte che salta alla mente ogni volta che si parla di graffiti – quella tra artisti e vandali. “Noi eravamo chi più artista e chi più vandalo. Io mi sono sempre considerato più artista, Avido come altri erano più vandali. Dipende dal modo che trovi per sfogarti: c’è chi si sfoga studiando le lettere, cercando di fare cose sempre più belle, e chi si sfoga vedendo il suo nome ovunque”, mi ha detto Rancy. Immagino sia una cosa che varia da persona a persona. “Io sono sempre stato un vandalo. A me gasava di più il discorso di avere tante robe in giro, perché ero ossessionato. Ho sempre saputo di non essere il miglior writer di Milano ma puntavo sulla quantità, volevo fare sempre di più”, mi ha detto Reno. “Lo facevo per l’azione, per l’adrenalina di entrare in deposito e dipingere. È una dipendenza, quando ho dovuto smettere ho fatto fatica, ho dovuto fare sempre di meno piano piano. Non ce la fai a smettere tutto di un colpo, è una parte importante della tua vita”. A Rancy invece il vandalismo ha sempre creato qualche problema: mi ha detto che il suo vero scopo era riprendersi lo spazio pubblico, non fare danni o dare rogne a un privato. Ma è costretto ad ammettere che, per quanto i graffiti siano una forma d’arte con una storia e un’influenza sociale, il vandalismo ne è comunque una parte ineludibile. “Per fare il nome della crew, la dimensione vandalica è quella che conta di più”, mi ha detto Rancy. “Il nome lo puoi diffondere in due modi: facendo cose ovunque o facendo le cose più fighe di tutti. Ma spingerlo ovunque facendo le cose più fighe di tutti è molto più difficile: hai limiti di tempo, di spazio, di contesto. Per esempio una metro la puoi fare in 20 minuti al massimo: se sei un fenomeno in 20 minuti puoi fare una cosa straordinaria che batte il muro più bello di tutti, ma è parecchio difficile.”

La dimensione vandalica si esprime anche in un altro modo: nel farsi da sé i propri colori e i propri inchiostri per rendere sempre più difficile cancellare il proprio nome. “Noi i colori li personalizzavamo. Facevamo certi composti di anielina, nero inferno e lucido da scarpe e veniva fuori una cosa che non si può cancellare, o ridipingi oppure niente, la plastica assorbiva troppo. Certe mie tag fatte così le vedo ancora”, mi ha detto Orbita.

“Il nero inferno è già un inchiostro molto forte. Noi andavamo in pelletteria e compravamo il colorante nero per le pelli, che è l’anielina, una polvere nera. La mischiavamo all’inchiostro e poi, siccome andava cotta in teoria a bagnomaria, mettevano tutto nel microonde per non rischiare di bruciare casa. Veniva fuori una roba viscosa e spessa e difficilissima da cancellare. Anche quello è il bello dei graffiti: scoprire una formula, poter dire di aver creato tu un inchiostro che non riescono a cancellare”, mi ha raccontato Orbita.

La scena di oggi

“Io non prendo mai la metro e sono completamente scollegato dal mondo dei graffiti. Una volta anche io andavo in giro orientandomi con i graffiti che vedevo sui muri invece che coi nomi delle vie, mentre oggi mi sono allontanato e ho perso un po’ l’occhio. C’è anche da dire che la squadra anti-graffiti ha ucciso la scena. Non dico che sia completamente morta, ma se vai in qualunque altra città d’Italia i graffiti autentici li vedi ancora. A Milano non li vedi quasi più”, mi ha detto Orbita. Dal 2015, in concomitanza con Expo, il comune ha dichiarato guerra ai graffiti. È stata creata una task force della polizia locale dedicata solo ai graffiti, appunto, oltre a una banca dati di graffiti e tag. Inoltre sono state inasprite le pene e si è cominciato a contestare il reato di “associazione a delinquere finalizzata all’imbrattamento” ai writer fermati, quasi fossero dei mafiosi! Uno dei filoni di indagine principale è internet: come ha detto il capo del Nucleo Antigraffiti, i writer “hanno un punto debole: la visibilità. Devono pubblicizzare le loro bravate e per farlo è necessario essere presenti sul web”. Inoltre, mentre una volta i writer dovevano essere colti in flagrante, adesso non è più necessario. Le indagini hanno consentito alla polizia di ricostruire la rete, di conoscere i nomi e le tag di tutti, e ciò ha scatenato tra i writer una comprensibile paranoia. Anche perché rispetto ai primi anni Duemila, adesso i graffiti sono molto di più un fenomeno social.

“La scena in metro è degenerata molto da quando è arrivato il turismo dei graffiti, gente che veniva dall’estero, amici di writer che li portavano in giro. Una volta succedeva, ma molto meno spesso. A un certo punto hanno cominciato a venire un sacco di turisti dall’estero che non si facevano più portare in giro da qualcuno ma andavano da soli, facevano quello che volevano, distruggevano i posti… più gente sa di un posto, più graffiti escono e più è facile che l’ATM se ne accorga e quel posto sia bruciato. Il turismo dei graffiti e chi ha portati troppi ha rovinato un sacco la scena”, mi ha detto Reno. Per una combinazione tra una repressione sempre più forte e la fine di certe regole non scritte che aiutavano a preservare l’ecosistema dei graffiti, la scena ha cominciato a crollare subito dopo che gli NMB se ne sono allontanati. Oggi i graffiti stanno diventando sempre di più un fenomeno social, un gioco da Instagram, anche perché le metro vengono pulite sempre più velocemente e spesso se fai una metro non la vedi nemmeno andare in giro. “Oggi la cosa si è un po’ calmata. Non è scomparsa, ci sono ancora un sacco di ragazzini che fanno graffiti, a parte la metro, magari senza nemmeno essere cosci della repressione che c’è adesso. O se ne sono consapevoli stanno molto più attenti. Noi eravamo molto più concentrati sulle missioni, la situazione era più accessibile”, mi ha detto Rancy.

“In passato chi era il migliore si scopriva dalla vita reale, guardando le metro che gli giravano e quanto era presente il suo nome in strada. Anche perché i social non c’erano” - Reno.

Fonti:
Vice;
NMB archivio;
Times;
Corriere della sera;
Quirinale - Roma.

Font:
Bebas Neue;
Monteserrat.

Stampa:
Supsi.

Ringraziamenti:
Ringrazio la mia famiglia per essermi sempre stati vicini, mia nonna, mio nonno, lo stato Italiano (Grandi) e anche Julie perchè ha avuto pazienza durante questa settimana di workshop.

Impaginato da Matteo con Paged:.s
(e InDesign perchè non funzionava lo script)
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